martedì 17 agosto 2010

Ode alle cose di Pablo Neruda



Da navegaciones y regresos (1959) di Pablo Neruda

Ode alle cose

Amo le cose pazze,
pazzamente.
Mi piacciono le tenaglie,
le forbici,
adoro
le tazze,
gli anelli,
le zuppiere,
per non parlare, naturalmente,
del cappello.

Amo
tutte le cose,
non solo
le eccelse,
ma
quelle infinitamente
piccole,
il ditale,
gli speroni,
i piatti,
le fioriere.

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Amo
tutte
le cose,
non perché siano
ardenti
o profumate,
ma perché
non so,
perché
quest’oceano è il tuo,
è il mio:
i bottoni,
le ruote,
i piccoli
tesori
dimenticati,
i ventagli nelle
cui piume
l’amore ha fatto appassire
i suoi fiori d’arancio,
le coppe, i coltelli,
le forbici,
tutto ha
nel manico, nell’orlo,
l’impronta
di certe dita,
di una mano remota
smarrita
nel più dimenticato degli oblii.

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Oh fiume
Irrevocabile
delle cose,
non si dirà
che solo
ho amato
i pesci,
o gli alberi della selva e della prateria,
che non solo
ho amato
ciò che salta, s’arrampica, sopravvive, sospira.
Non è vero
molte cose
mi hanno detto tutto.
Non solo m’hanno toccato
o le ha toccate la mia mano,
ma hanno accompagnato
in modo tale
la mia esistenza
che con me sono esistite
e sono state per me tanto esistenti
che hanno vissuto con me mezza vita
e moriranno con me mezza morte.

A me capita spesso di leggere le liriche di un poeta e di essere profondamente toccata da talune in particolare, sono quelle nelle quali ritrovo sensazioni o desideri che ho sperimentato nel corso della vita e sovente poi le risposte a domande che mi pongo nell’analizzare alcuni comportamenti del mio animo, come l’amore per le cose piccole cose…la riluttanza a separarmene, la propensione a privilegiarne l’uso a scapito delle altre.
E’ vero che “le cose” parlano e raccontano storie che ci appartengono, purtroppo a volte risvegliano tristezze e rimpianti, ma non per questo ci sono meno care. e.b.

martedì 3 agosto 2010

L' Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi


Un film ritrovato per caso, che non avevo visto e che ho "goduto" scena dopo scena senza accorgermi dello scorrere del tempo. Un film che resterà a lungo nella mia memoria e che consiglio vivamente a chi ama il buon cinema.
Per i miei visitatori una scheda tratta dal web.

Regia: Ermanno Olmi
Lettura del film di Olinto Brugnoli

Edav N° 62-63 - 1978
Titolo del film: L·ALBERO DEGLI ZOCCOLI
Cast: regia, sogg. e scenegg.: Ermanno Olmi - fotogr.: Ermanno Olmi - mus.: Fernando Germani - scenogr.: Enrico Tovaglieri - mont.: Ermanno Olmi -
produz.: Gruppo Produzione Cinema (Milano), RAI, Italnoleggio Cinematografico - origine: ITALIA, 1978 - distribuz: Italnoleggio Cinematografico, Fonit Cetra Video, Video Club Luce, Gruppo Editoriale Bramante (Cinecittà).
Sceneggiatura : Ermanno Olmi
Nazione: ITALIA
Anno: 1978
Presentato: 31mo Festival di Cannes 1978 - In Concorso
Premi: PALMA D·ORO E PREMIO DELLA GIURIA ECUMENICA AL FESTIVAL DI CANNES 1978; DAVID DI DONATELLO (1979) PER MIGLIOR FILM (EX-AEQUO CON "CRISTO SI E· FERMATO A EBOLI" DI FRANCESCO ROSI E "DIMENTICARE VENEZIA" DI FRANCO BRUSATI); NASTRO D·ARGENTO PER MIGLIOR REGIA, MIGLIOR SOGGETTO ORIGINALE, MIGLIOR SCENEGGIATURA, MIGLIOR FOTOGRAFIA E MIGLIORI COSTUMI (Francesca Zucchelli).
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Prodotto dalla Rete 1 della nostra TV e distribuito dall’Ital Noleggio Cinematografico, L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI, ultimo film del regista bergamasco Ermanno Olmi, ha ottenuto la Palma d’Oro al Festival di Cannes 1978, rinnovando – e superando – il clamoroso successo ottenuto l’anno scorso da un altro film prodotto dalla nostra TV: PADRE PADRONE dei fratelli Taviani. Il film è interpretato da contadini e gente della campagna bergamasca e viene distribuito in due versioni: una, originale, parlata in dialetto bergamasco e corredata di didascalie in italiano; l’altra – destinata a circolare nelle normali sale di proiezione – doppiata in italiano ma degli stessi protagonisti, che conservano l’accento natio e parecchie espressioni dialettali. È quest’ultima la versione di cui si parla nel presente articolo.

La vicenda è quella di un gruppo di persone, costituenti quattro nuclei familiari, che vivono in una cascina lombarda sul finire del secolo scorso. Man mano che i vari episodi si dipanano sullo schermo, impariamo a riconoscere e a familiarizzare con i vari personaggi e relative famiglie. Innanzitutto con Batisti, onesto e laborioso padre, prima i due, poi i tre s’cett (bambini), che vive in perfetta armonia con la docile moglie. Il figlio maggiore dei due, lo sveglio Minek, su proposta del parroco, viene mandato a scuola (cosa assai rara per un figlio di contadini) e deve ogni giorno percorrere a piedi sei e sei dodici chilometri per andare dalla cascina al borgo e ritorno. Un giorno, tornando da scuola, gli si rompe uno zoccolo. E ciò proprio in concomitanza con la nascita del suo secondo fratellino. Batisti, per evitare preoccupazioni alla moglie, le tace l’episodio e pensa bene di provvedere ad un paio di zoccoli nuovi per il figlio con il legno ricavato dall’abbattimento di un albero (del padrone). Ma il fatto avrà conseguenze drammatiche: il padrone, accortosi dell’albero mancante, farà cacciare Batisti dal podere dal fidatissimo quanto spietato fattore. Lo vediamo partire con i suoi, nell’amara scena conclusiva del film, accompagnato non dai saluti, ma dalla preghiera e dalla muta partecipazione dei vicini, che guardano esterefatti il lume del carro di Batisti allontanarsi nella notte.
[....]
Il racconto cinematografico possiede una struttura che si potrebbe definire ad incastro. Infatti i vari nuclei narrativi, che hanno come protagonisti i diversi personaggi, si alternano, si compenetrano fra loro, quasi come tessere di un grandioso mosaico, fino al compimento del quadro d’insieme.

Già da questo rilievo è possibile cogliere una prima significazione del racconto: è chiaro che al regista interessa ricostruire e rievocare la vita di un gruppo di famiglie contadine della Bassa Bergamasca sul finire del secolo scorso. Ma a che fine? Forse con intenti storici, o sociologici, o politici? Direi senz’altro di no, anche se questi aspetti non sono del tutto assenti (né potevano esserlo, trattandosi di una ricostruzione). Il rilievo storico più esplicito è quello relativo ai moti milanesi del 1898, soffocati dalla dura repressione del generale Bava Beccaris. Dal punto di vista politico e sociologico, oltre alla didascalia iniziale, che descrive brevemente le condizioni di vita dei contadini («la terra, le case, parte degli animali e degli attrezzi appartenevano al padrone, al quale andavano i due terzi del raccolto»), si può rilevare il comizio tenuto al termine della sagra annuale (nel quale si fa riferimento alle varie ingiustizie sociali) e i vari episodi relativi al padrone e al fattore, tra i quali spicca l’ultimo, quello della cascina. Altri accenni sono marginali e di poco conto.

Da una più attenta analisi del racconto, invece, ci si accorge chiaramente che l’interesse del regista marcia in un’altra direzione. L’attenzione è volta a scoprire e a comprendere l’atteggiamento interiore, le motivazioni profonde, lo spirito di questa gente, i valori che sottostanno al suo comportamento e alla sua vita. Esistono nel film degli spazi tematici, all’interno dei quali è possibile ricondurre quasi tutto il materiale narrativo, che acquista in tal modo pregnanza e trasparenza.

Innanzitutto la profonda religiosità. Fin dall’inizio siamo immersi in un’aura religiosa e sacrale. Le prime immagini che descrivono visivamente l’ambiente naturale sono contrappuntate da una canzone sacra (che si capisce provenire dalla chiesa) di lode e di ringraziamento al Signore.

La religiosità viene espressa dal regista in due forme differenti, ma convergenti: a livello di cosa rappresentata, attraverso l’atteggiamento e la sensibilità religiosa dei vari personaggi; a livello di rappresentazione, col commento musicale affidato alla musica religiosa di J.S. Bach.

La religiosità dei personaggi si manifesta e si concretizza in varie forme e atteggiamenti.Si va dal semplice segno di croce che precede le varie azioni (il mangiare, il coricarsi, ecc.) alla recita comunitaria del rosario farfugliato in latino; dall’atteggiamento superstizioso e ingenuo della «donna del segno» che prescrive un intruglio talismanico a Finard, alla profonda fede di Runk che (seppur con riti quasi magici) riesce a «strappare» al Signore la grazia per la mucca ammalata («Fatemela ‘sta grazia; Signore, non potete rifiutarmela!»); dalla partecipazione comunitaria alla messa nel giorno della sagra, a quel guardare commossi verso il cielo stellato finché suonano le zampogne sotto Natale. Come si vede, talvolta la religiosità è arcaica e primitiva, commista di elementi miracolistici e magici, ma, al di là delle forme concrete in cui talvolta si realizza, rivela alle radici una fede semplice e possente, capace di spostare le montagne.
La religiosità che sgorga dal commento musicale investe e permea tutto il film, conferendogli una dimensione quasi sacrale. Una sacralità che è della natura e di chi, lavorando la terra, le è così vicino. Una natura generosa e amica, fonte di letizia e di serenità. Il lavoro e la vita dei campi sono, si, duri e faticosi, ma nello stesso tempo occasione di gioia e di festa. [....]Ma la religiosità di questa povera gente non si esaurisce nelle preghiere o nella rassegnazione alla volontà divina, bensì diventa fonte di altri valori.
[....] L’amore verso gli uomini, corollario dell’amore di Dio, si traduce in operosa solidarietà. Questa si manifesta sia nell’ambito familiare (si pensi a Batisti che aiuta la moglie e si prende cura dei figli) sia nel lavoro comune (le grandi scene corali dell’uccisione del maiale, della semina, della spannocchiatura, della pesatura del grano), ma anche nei confronti degli altri, soprattutto dei più bisognosi e diseredati. Si pensi al patetico personaggio dello scemo del villaggio che va per le case a pregare e a chiedere un pezzo di pane. Viene accolto con rispetto (la vedova Runk rimprovera le bambine cui scappa da ridere: «Non va bene ridere; quelli che non hanno niente dalla vita sono i più vicini al Signore»), si prega con lui, gli si offre quello che c’è, anche nei momenti di maggiore tristezza o miseria (nonno Anselmo gli offre un po’ di polenta proprio quando la mucca era data per spacciata).
[.....]Un’ultima annotazione: Olmi non ha voluto idealizzare o mitizzare la cosiddetta civiltà contadina. Prova ne è che, accanto a personaggi positivi e virtuosi, ne ha posti altri quanto meno criticabili, come Finard, ladruncolo e iracondo, e la sua famiglia, non molto migliore di lui. Ma se, per rispetto della realtà, Olmi ha giustamente tenuto conto anche delle miserie e degli aspetti meno nobili del mondo contadino, è chiaro che la sua attenzione e il suo interesse sono rivolti agli aspetti positivi, a quei valori che oggi risultano purtroppo offuscati e dimenticati.

Si può affermare pertanto che l’idea centrale consiste in una rievocazione della vita del mondo contadino, alla ricerca di valori perduti o offuscati; valori che, al di là delle forme storiche, contingenti in cui si sono concretizzati, sono tuttora validi e devono pertanto essere riscoperti dall’uomo contemporaneo. Quella di Olmi, quindi, non è nostalgia per il passato, per il buon tempo antico, che sarebbe antistorica e sterile, ma recupero di certi valori del passato in vista del progetto di un futuro migliore e più umano.

Cinematograficamente il film è splendido. Nonostante le tre ore di proiezione, praticamente non esistono cadute di tono o momenti morti. Il ritmo è maestoso e nel contempo dimesso. La recitazione è sobria, contenuta, perfettamente aderente al mondo e all’ambiente che si vogliono ricreare. Il regista riesce ad ottenere dai suoi contadini la massima naturalezza: sullo schermo non si scorgono attori che recitano, ma personaggi che vivono e operano. Olmi sa fissare, con mano magistrale e con sensibilità squisita, le espressioni dei volti e le vibrazioni degli animi. L’uso del sonoro è quanto mai efficace e funzionale. Si è già detto della stuggente musica di Bach, chiamata a conferire sacralità a gesti e atteggiamenti; ma anche i suoni, i rumori, le parole si fondono in un afflato corale e unitario (1). Anche la fotografia, sempre volta a sfumare le tinte degli interni e dei paesaggi e a variare le luci a seconda delle stagioni, è perfettamente intonata al tono elegiaco dell’opera.
[....]

Tematicamente e moralmente non solo non esistono riserve, ma va sottolineato il grande valore del film per l’efficacia dell’espressione tematica, la validità dei temi proposti ed il rispetto profondo per l’uomo e la sua dignità. (Olinto Brugnoli)